La Fabbrica
Pioveva come se ci fosse il timore che la piogga sarebbe scomparsa per non tornare più.
Pioveva furiosamente, una di quelle sciroccate che ti piegano in due sull'asfalto dopo averti infradiciato le ossa.
La Fabbrica, immersa in un crepuscolo malsano, risplendeva di mille luci: le lampade di servizio, le luci di sicurezza, le scintille, le fiamme degli sfiati, i neon tremolanti e le rotonde e giallastre lampade al sodio che rendevano tutto quanto immerso in un'umida malaria che sembrava portata direttamente dalla palude circostante.
Chiuse la portiera del furgone, sbattendola involontariamente per il vento, poi si calco' il berretto in testa e si avviò verso il cancello. Ancora un paio d'ore e sarebbe stato Natale, un Natale che nessuno avrebbe voluto passare attorno alle vasche di decantazione o ai pannelli delle valvole; un Natale in cui il lavoro necessario di pochi disgraziati faceva in modo che tutti gli altri potessero stare insieme, fare festa, cenare nel salotto buono, con l'albero acceso e i pacchi in attesa di essere aperti, i bambini che non vogliono andare a dormire e magari anche il camino acceso.
Turno di notte. Poi al mattino avrebbe staccato, sarebbe tornato al furgone, sarebbe rientrato a casa, una casa in cui viveva ormai da solo da almeno cinque anni, dove nessuno avrebbe lasciato un regalo.
Era ormai al cancello e tutto sommato, pensò, le luci della Fabbrica la facevano sembrare un enorme albero di Natale disteso a terra, scintillante di decorazioni in lenta intermittenza. Una notte di lavoro come tante.
Nelle auto che sfrecciavano sulla provinciale, a poche decine di metri, qualcuno si voltò a guardare, mentre rientrava a casa, e per un attimo pensò anche a lui, pur non sapendolo.
La pioggia continuava a scrosciare.
Pioveva furiosamente, una di quelle sciroccate che ti piegano in due sull'asfalto dopo averti infradiciato le ossa.
La Fabbrica, immersa in un crepuscolo malsano, risplendeva di mille luci: le lampade di servizio, le luci di sicurezza, le scintille, le fiamme degli sfiati, i neon tremolanti e le rotonde e giallastre lampade al sodio che rendevano tutto quanto immerso in un'umida malaria che sembrava portata direttamente dalla palude circostante.
Chiuse la portiera del furgone, sbattendola involontariamente per il vento, poi si calco' il berretto in testa e si avviò verso il cancello. Ancora un paio d'ore e sarebbe stato Natale, un Natale che nessuno avrebbe voluto passare attorno alle vasche di decantazione o ai pannelli delle valvole; un Natale in cui il lavoro necessario di pochi disgraziati faceva in modo che tutti gli altri potessero stare insieme, fare festa, cenare nel salotto buono, con l'albero acceso e i pacchi in attesa di essere aperti, i bambini che non vogliono andare a dormire e magari anche il camino acceso.
Turno di notte. Poi al mattino avrebbe staccato, sarebbe tornato al furgone, sarebbe rientrato a casa, una casa in cui viveva ormai da solo da almeno cinque anni, dove nessuno avrebbe lasciato un regalo.
Era ormai al cancello e tutto sommato, pensò, le luci della Fabbrica la facevano sembrare un enorme albero di Natale disteso a terra, scintillante di decorazioni in lenta intermittenza. Una notte di lavoro come tante.
Nelle auto che sfrecciavano sulla provinciale, a poche decine di metri, qualcuno si voltò a guardare, mentre rientrava a casa, e per un attimo pensò anche a lui, pur non sapendolo.
La pioggia continuava a scrosciare.
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Grazie a Cristiana, che mi ha permesso di utilizzare queste parole che avevo scritto per una sua foto :-)
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